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al testo di Domenico Ciarlo
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Io non sono, lo confesso, un intrepido soldato, battagliero ed indefesso.
Non mi va d’attaccar brighe, di difendere il puntiglio, di parlar sopra le righe: sono, insomma, un po’ coniglio.
Che si parli di campioni del pallone e poi di fedi o politiche illusioni, do ragione a questo e quello.
È già tanto faticoso nella vita d’ogni giorno destreggiarsi tra furbetti che ci assediano d’intorno!
Chi ci chiede per due volte di pagare una bolletta, chi approfitta della fretta per rubarci anche la firma…
Chi s’è preso già un impegno, quando poi si viene al dunque, non può scrivere un assegno e ci lascia a bocca asciutta.
L’incapace e buono a nulla ci sorpassa allegramente, esibendo la patente di chi l’ha raccomandato.
Per uscir da tante pene, ritrovando un po’ di pace e un anticipo di bene, che non sia solo fugace,
alla sera mi rivesto di quegli abiti curiali che mi fanno dialogare di materie non venali.
Mi rifugio, vale a dire, nella storia del passato, ché passate son le mire degli antichi personaggi.
Ch’io parteggi per Antonio o per Cesare Ottaviano non fa proprio differenza: ogni tifo adesso è vano.
Ch’io sia guelfo o ghibellino, carbonaro od austriacante, non mi muta più il destino: son passati troppi lustri.
Così passo quattro ore senza noia e senza affanni; rappacifico il mio cuore e dimentico i malanni.
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